C’è qualcosa di profondamente inquietante in quegli uomini in bombetta che piovono dal cielo. René Magritte, il maestro belga del surrealismo, ci ha abituati a queste visioni sospese tra realtà e sogno, ma Golconda (1953) rimane una delle sue opere più emblematiche e, al tempo stesso, enigmatiche.
La scena è apparentemente semplice: una griglia ordinata di uomini in abito scuro e bombetta, perfettamente identici, fluttuano immobili nello spazio urbano. Sullo sfondo, case borghesi e un cielo nuvoloso completano un quadro che potrebbe essere un qualsiasi sobborgo belga degli anni Cinquenta.
Eppure, basta osservare per qualche secondo per avvertire quel tipico senso di straniamento magrittiano. Perché questi uomini non cadono? Perché sono tutti uguali? E soprattutto: perché nessuno sembra accorgersi dell’assurdità della situazione?
Magritte lavora sul principio della “crisi dell’oggetto” cara ai surrealisti, ma con un approccio unico. Mentre Dalí deforma e moltiplica, Magritte preferisce isolare e ricontestualizzare. Prende elementi banali – la bombetta, il cappotto nero, le case borghesi – e li combina in modo da farli apparire misteriosi.
Come nota David Sylvester nei suoi Scritti su Magritte (2009), l’artista “non inventa mondi fantastici, ma rivela la fantasia insita nel mondo reale”. Quel che rende Golconda così potente è proprio questa qualità: non mostra nulla di impossibile, ma organizza il possibile in modo impossibile.
Il titolo rimanda all’antica città indiana di Golconda, famosa per i suoi diamanti. Un riferimento che potrebbe suggerire come il vero valore non stia negli oggetti rappresentati, ma nella loro inedita combinazione.
Alcuni critici vi leggono una metafora della società di massa (Gablik, 1970), altri un gioco sulla gravità e le leggi fisiche (Foucault, 1973). Ma forse, come spesso accade con Magritte, il segreto sta nel non cercare una spiegazione univoca.
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